sabato 5 febbraio 2011

Obbedisco!

“Oh! Oh! Che cazzo fai? Ma sei impazzito?”

C'è un estintore per terra. Lo raccolgo, cerco di coprirmi il volto.

“Fermo! Fermo! Che cazzo fai!”

Sembra non sentirmi, forse fa finta.

Poi un colpo sordo, mi sento penetrare la testa.

Sangue caldo mi scorre in viso, è il mio.

Sono a terra incosciente, ma ancora vivo. È il dolore a ricordarmelo.

Sento un altro colpo in testa, e un altro ancora.
Me la stanno fracassando con un sasso.

Spiro.

La scena ora la guardo dall'esterno.

Lui, il ragazzo che giace esanime circondato dai suoi aguzzini, si chiama Carlo. Ha, aveva, 23 anni.

Io sono Giuseppe Garibaldi, e questo è il mio supplizio.
Condannato dal Grande Architetto dell'Universo a patire tutte le sofferenze dei ribelli che lottano per quelli che sono stati i miei stessi ideali. Uccisi dallo stato sbagliato che ho contribuito a creare.

La mia colpa?

Una sola parola la riassume, “Obbedisco!”.

Prima di Carlo sono stato Fabrizio Ceruso, Giorgiana Masi, Antonio Gramsci, i fratelli Cervi e tantissimi altri.

Nulla è valso essermi pentito di aver pronunciato quella parola. Di aver aver pensato innumerevoli volte che sarebbe stato meglio non stringere quella mano, ma puntare la rivoltella e gridare: “Viva l'Italia! Viva la repubblica! Viva il socialismo!”.

Non l'ho fatto.

Colpevole agli occhi del Grande Architetto dell'Universo di aver tradito i miei ideali e il mio amore.

Anita...

Ricordo ancora, la sognai prima di spirare.

La scena era quella di un'altra morte, la sua.

Le stringevo il polso e lei, quasi esanime, mi sussurrò: “Perché sovrano è il popolo, mai più ritorni un re! Non scordarlo mai!”

Non l'ho dimenticato. Ma la promessa non la mantenni.
Poco conta che non me lo sia mai perdonato.

Ora il mio supplizio è quello di sentire, come fossi io, tutte le sofferenze di coloro che lottano ancora. Fino a quando quelli che furono i miei sogni non saranno realizzati.

E ogni tanto mi capita di rivedermi morente.
Soffoco, il capo è riverso da un lato, il corpo paralizzato.
Nella mia stanza entra Leggero. Urla, piange.

Poi guarda il tavolo, scorge il mio testamento:

“Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo, e della confusione che sovente vi succede, s'inoltra, e mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga coll'impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze passate, ai doveri di cattolico: in conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare, in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d'un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell'Italia in particolare. E che solo in stato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada”.

Ricordare il sorriso che illuminò il volto di Leggero mentre leggeva mi aiuta ad alleviare le sofferenze di questa pena.

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