mercoledì 2 marzo 2011

In diretta dalla rivoluzione

Immagini e suoni.
Forse nessuna rivoluzione ne ha messi a disposizione tanti quanto le rivolte che stanno infiammando il Nord Africa e il Medio oriente.

Tanti e a disposizione di chiunque voglia accedervi, in qualsiasi parte del mondo.
È perdendoti, seppur virtualmente, in questa moltitudine che ti rendi conto dell’effetto dirompente di quelle rivolte. E non solo sui regimi locali.

Le folle che riempiono le piazze del mondo arabo abbattono dittatori, riconquistano spazi di democrazia, sperimentano forme nuove di autogoverno.
Contemporaneamente spazzano via la narrazione del mondo arabo imposta dai governi occidentali.

Una storia tossica

Tra la gente scesa in piazza le donne sono truccate, vestono jeans attillati. Si fatica a scorgere un velo, un chador, un burqa.
Gli uomini indossano felpe, bomber, t-shirt.

Ad accompagnare la ribellione non è il ritmo lento delle antiche nenie arabe, ma quello ben più incalzante del rap. French style.

L’urlo che risuona dalla Tunisia al Bahrain è “dégage!”, andatevene! Rivolto ai dittatori e ai loro lacchè.

Niente, neanche per un istante, ti fa credere che quelli che stai osservando e ascoltando siano dei fondamentalisti religiosi.

Quei paesi non sono l’immenso covo di integralisti islamici descritto dai governi e dai media occidentali.

Quella narrazione era una storia tossica. Utile a giustificare guerre, a offrire un nemico ai popoli occidentali, a sviare l’attenzione dalla precarietà, dalla crisi economica, dal fallimento del capitalismo.

Ma le storie tossiche, anche se ben orchestrate, hanno vita breve. E, dopo le fantomatiche armi di distruzione di massa irachene, crolla un altro tassello, quello principale, della narrazione occidentale del mondo arabo.

A farlo crollare non è un’inchiesta, non è Wikileaks.
Sono popoli in rivolta che si mostrano all’Occidente in maniera diametralmente opposta a come erano stati descritti.

La moltitudine che affolla quelle piazze non reclama la shari’a, ma diritti sociali e libertà.
Si oppone a una visione antiquata del mondo, una visione che opprime invece di liberare.

A scendere per le strade sono soprattutto i giovani. In tutti i paesi del mondo arabo più della metà della popolazione ha meno di trent’anni.

Ad accomunarli non sono le credenze religiose. In Egitto, nei giorni cruciali della rivoluzione, cristiani e musulmani hanno pregato insieme per dimostrare di essere un unico popolo.

Il collante è sociale.
Per tutti “costa tutto troppo”, tutti sono precari, tutti aspirano a una società più libera, diversa.

Da piazza Statuto a piazza Tahrir


I giovani che protestano nel mondo arabo, scrive il quotidiano britannico “The Guardian”, “hanno un lavoro malpagato che detestano, faticano a ottenere una laurea che non servirà a niente. Sono una generazione ostacolata dalle tradizioni, dalla deferenza e dai governi autoritari”.

La disoccupazione giovanile raggiunge in alcune zone l’80%, in tutto il mondo arabo si attesta mediamente attorno al 25%.

Chi lavora, spesso è sottopagato, impiegato in servizi di assistenza clienti o in call center.

Eppure, spulciando i dati relativi a quei paesi, si nota che il Pil, nell’ultimo decennio, è cresciuto a ritmo “cinese”. Si è prodotta ricchezza, ma questa si è concentrata nelle mani della élite che controlla l’industria e i governi.

Di pari passo con il Pil è cresciuta anche l’inflazione, mentre i salari, per attrarre le commesse occidentali, sono rimasti fermi.

A fronte di una maggiore “ricchezza” prodotta, il popolo si è impoverito ulteriormente e, con l’aumento dei generi alimentari, è diventato difficoltoso anche comperare il pane.

È in questo contesto che le piazze si sono riempite, è per queste ragioni che Mohamed Bouazizi si è dato fuoco innescando la rivolta tunisina.

Quella che affolla le piazze del mondo arabo è una nuova soggettività sociale, frutto dei mutamenti del capitalismo.

Quando, nel 1962, a Torino, migliaia di giovani operai invasero piazza Statuto per protestare contro l’accordo separato siglato tra Fiat e alcuni sindacati, Romano Alquati scrisse: “Noi non ce l'aspettavamo, eppure l'abbiamo organizzata”.

Intendeva dire che loro, quelli di “Quaderni rossi”, erano stati i primi a intuire che un nuovo soggetto, l’operaio massa, frutto delle mutazioni interne al capitalismo, stava affermandosi sulla scena. Quella rivolta diede forma a quelle intuizioni, le confermò.
Fu materia viva da studiare.
Solo quattro anni dopo fu dato alle stampe “Operai e capitale” di Mario Tronti, in cui quegli spunti, quelle intuizioni, furono formalizzati, divennero teoria.

La rivolta araba non solo non se l’aspettava nessuno, ma nessuno ha contribuito a organizzarla, se non i popoli insorti e le contraddizioni interne al capitale.

In questo caso è il “precario moltitudine” che, dopo l’operaio massa, si appropria della scena sociale.

A scendere in piazza è una nuova soggettività sociale, sorta dei mutamenti che negli ultimi decenni hanno attraversato il capitalismo a livello internazionale.

Una soggettività che rispetto all’operaio massa ha un’arma in più.
Sin dal primo momento le rivendicazioni non sono solo sociali, salariali, come erano a piazza Statuto. Quelle folle reclamano diritti sociali e politici: soldi, pane e libertà.

L’operaio massa ci mise dieci anni per giungere a quelle rivendicazioni, il precario moltitudine non comincia da capo. Riparte dallo stesso punto in cui il lavoro del suo antenato era stato interrotto, sconfitto. Anche se il giovane che occupa piazza Tahrir non ha mai letto “Operai e capitale”, né ha mai sentito parlare di piazza Statuto.

Forse è questo che spaventa i governi occidentali.

Forse è questa la risposta che cerca il filosofo sloveno Slavoj Žižek quando si chiede perché i liberal occidentali, che pubblicamente hanno sempre sostenuto la democrazia, si preoccupano proprio adesso, quando la gente si ribella in nome della libertà e della giustizia, e non in nome della religione.

La paura, probabilmente, è rappresentata dal fatto che, una volta crollata la narrazione tossica del mondo arabo, possa diffondersene un’altra. Una narrazione che parla di soldi, pane e libertà. Risorse che spesso scarseggiano anche per i popoli occidentali.

Una narrazione che per diffondersi può contare su un mezzo del tutto nuovo e orizzontale, la rete.

Rete&rivoluzione

“Le rivoluzioni a catena in Nord Africa sono un enorme e metaforico viaggio della speranza”, scrive l’artista italo-libica Adelita Husni-Bey.
A traghettare i rivoltosi, però, questa volta non sono le carrette del mare, ma fibre ottiche, cavi, satelliti.

Con un recente articolo apparso sulla rivista statunitense “The New Yorker”, Malcom Gladwell ha aperto un’ampia discussione sul connubio tra social media e rivoluzione.

Grazie alla rete, dice Gladwell, si creano esclusivamente legami deboli, utili per sensibilizzare su tematiche specifiche, magari per convincere qualcuno a donare il sangue. Nulla di più.

La rivoluzione, secondo lui, è un’altra storia.
Per farla occorrono compagni fidati, legami che solo calpestando le stesse strade, solo respirando lo stesso odore della rivolta e la stessa puzza della repressione, possono consolidarsi.

Ha ragione!
La sua analisi ha però un limite. Osserva la rete solo dal punto di vista dei legami che può creare. Tralascia le informazioni messe a disposizione senza mediazioni, senza censure.

Immagini e suoni alla portata di tutti.

L’attendibilità delle fonti in rete è stata una delle tematiche più discusse negli ultimi tempi. Il problema sussiste ancora, ma non nel caso delle rivoluzioni di questi giorni.

A far circolare le informazioni, se vivi per esempio in Egitto o in Tunisia, è il tuo vicino di casa, il tuo compagno di banco, quello che l’altro giorno, in piazza, era a protestare al tuo fianco, o al fianco di tuo figlio, di tua moglie, di tuo marito. Per questo non ti poni il problema della fonte. Anzi, la reputi più attendibile.

È la stessa ragione per cui quelle immagini hanno un effetto dirompente anche in occidente, il motivo per cui offuscano la narrazione tossica del mondo arabo.
Grazie alla rete, quel popolo ha l’opportunità di autorappresentarsi, di manifestarsi nelle case occidentali per quello che realmente è, senza mediazioni, senza filtri.

E si manifesta gridando “dégage!”, “andatevene!” a governanti sanguinari e corrotti. Lo fa rivendicando soldi, pane e libertà.

A qualcuno potrebbe venire in mente che, in fin dei conti, questi arabi non sono molto diversi da noi. Si vestono in maniera simile alla nostra, ballano al suono di ritmi a noi familiari, hanno gli stessi nostri problemi…

Sarà questo a preoccupare i governi occidentali?

È per questo che preparano l’invasione della Libia?
Un popolo libero in un paese ricco di materie prime è pericoloso. Per i capitalisti occidentali, of course.

1 commenti:

Anonimo,  2 marzo 2011 alle ore 17:45  

Ottimo post, complimenti... cerco di diffonderlo...

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