venerdì 24 ottobre 2014

Waterloo! - Appunti sparsi sul capitalismo contemporaneo.


Il costante tentativo di razionalizzare l'intera società in base ai principi della massimizzazione dei profitti, adottando strumenti e conoscenze sempre più avanzati, in grado di creare automatismi nell'accumulazione (ma non solo) e velocizzare i processi a tutti i livelli.

E' una delle caratteristiche principali delle società capitaliste. L'agire politico dei capitalisti, sia diretto sia indiretto, è improntato all'ottenimento di questo risultato.

Marx lo aveva intuito quasi due secoli fa, per questo molte delle sue analisi sono lungimiranti e trovano riscontro ancora oggi.

Marxismo

Molti marxisti invece, sembrano tralasciare questo aspetto, dedicano poco tempo all'analisi della struttura delle società capitalistiche, e si perdono in dispute teoriche che vanno verso una concezione “misterica” dell'economia.

Così, non si rendono conto che mai come in questo momento i fallimenti del capitalismo sono manifesti, pubblici.

E che i lavoratori siano sfruttati, lo si comprende molto meglio dalla formula creata dagli economisti neoliberisti per massimizzare i profitti (e che ogni azienda contemporanea utilizza), che dalla teoria del valore lavoro elaborata da Marx.

L'equivoco di fondo è uno: le teorie neoliberiste non servono a spiegare l'economia, o a celarne il reale funzionamento, ma a razionalizzare il sistema economico (e non solo) in base ai principi che propagandano.

Le banche, le imprese, i modelli previsionali adottati da stati e privati, funzionano grazie ad algoritmi elaborati in base a quelle teorie.

L'assunto di fondo è: se l'impresa privata massimizza i profitti, vi sarà una ricaduta positiva sull'intera società, e anche il benessere complessivo crescerà costantemente, proprio come i profitti.

La crisi cominciata nel 2007 dimostra che questo assunto è sbagliato, e sono proprio gli algoritmi creati per razionalizzare l'intera società, e non solo l'economia, in base a esso che non hanno retto. Rendendo manifesto che è proprio la ricerca costante e incondizionata di profitti a creare instabilità diffusa nel sistema, trasferendo sull'intera società, e persino sull'ambiente e sul territorio, i costi dell'insostenibilità sistemica che caratterizza il capitalismo contemporaneo.

Di quella crisi molti ricordano i mutui subprime e l'effetto disastroso che ebbero sul sistema economico a livello globale; pochi invece conoscono il nome di Xiang Lin, che all'epoca era professore all'Università di Waterloo, in Ontario.

La Waterloo del capitalismo

Lin elaborò una formula matematica in base alla quale era possibile calcolare il rischio derivante da una determinata operazione finanziaria, e in base a questo, fu possibile ideare modelli che permettevano, almeno a prima vista, e mediante una serie incrociata di assicurazioni, di eliminarlo o ridurlo a livelli infinitesimali.

Una sorta di pietra filosofale insomma.

E' grazie alla scoperta di Lin che i mutui subprime ebbero la diffusione che venne riscontrata allo scoppiare della crisi. Ma se la crisi avesse riguardato solo quel settore, molto probabilmente non avrebbe avuto le conseguenze che ancora oggi verifichiamo quotidianamente.

In base alla formula di Lin, soprattutto negli Stati uniti, si cercò di riversare sui mercati assicurativi ogni spesa derivante dalla previdenza sociale, mentre i mercati bancari si accollarono il sostegno dei consumi, grazie a una diffusione mai osservata prima del credito al consumo.

Ma la formula di Lin non resse lo stress alla quale fu sottoposta, non tutti i rischi erano prevedibili ed eliminabili. Molte variabili non erano state considerate, e l'instabilità sistemica era data dagli stessi principi che avevano ispirato la formula: quelli della teoria neoliberista, la massimizzazione dei profitti privati.

Un economista americano di origine indiana, Raghuram Rajan, descrive i giorni della crisi con queste parole:
“Il dato in qualche modo spaventoso è che ognuno di noi ha fatto ciò che era ragionevole fare, dati gli incentivi che aveva di fronte.

E, nonostante fosse sempre più evidente che le cose stavano andando male, tutti ci siamo attaccati alla speranza che sarebbe finita bene, i nostri interessi stavano in quel risultato.”

In altri termini: la situazione era appetitosa per molti investitori, si intravedevano buoni margini di extra profitto e, nonostante gli indicatori dessero segnali allarmanti, tutti ebbero fiducia negli algoritmi che regolavano il sistema e permettevano di distribuire i rischi.

Forse pensavano che l'euforia che animava i mercati lentamente sarebbe scemata, lasciando il posto a una situazione più “normale”.

Ciò non avvenne, i mercati crollarono proprio perché tutti cercarono di massimizzare il proprio profitto e i rischi divennero imprevedibili.

Assieme ai mutui subprime, crollò il più grande tentativo di razionalizzare l'intera società in base al principio della massimizzazione dei profitti privati mai avvenuto dalla nascita del capitalismo.

Le politiche neoliberiste che si erano diffuse a partire dagli anni '70 del secolo scorso non ressero, ed era la loro formalizzazione matematica, ideata per razionalizzare il sistema, che lo dimostrava.

Le politiche neoliberiste


In tutti i paesi nei quali sono state applicate, le politiche economiche neoliberiste sono state caratterizzate da una costante diminuzione delle tasse sui consumi e sulle imprese, da una forte elargizione di contributi pubblici al sistema produttivo privato e dal “trasferimento sovvenzionato” al settore privato della previdenza sociale, dell'istruzione e della sanità.

Per chi era costretto a pagarle (lavoratori dipendenti, artigiani, autonomi, commercianti e piccoli imprenditori), le tasse diventavano sempre più odiose, in stati che garantivano sempre meno servizi, protezioni, diritti e garanzie.

A fronte di una costante riduzione delle imposte, soprattutto per la grande impresa, e di enormi trasferimenti di denaro al settore privato, il peso del debito ha cominciato a manifestarsi in maniera sempre più vistosa nei bilanci pubblici, a partire da quelli degli Stati uniti, dove, tra il 2000 e oggi,  è cresciuto vertiginosamente.

Il debito

Gli stati si sono indebitati e hanno tagliato le spese per trasferire denaro alla grande impresa privata, che a sua volta gestiva, in base al criterio della massimizzazione dei profitti, settori fino ad allora di competenza dello stato, e pagava sempre meno tasse, aumentando il rischio di insolvenza degli stati, che a fronte di una sempre maggiore parte di spesa finanziata con debito, potevano contare su entrate sempre più esigue.

Si è assistito a un enorme trasferimento di denaro dalle casse pubbliche a quelle della grande impresa privata, finanziato con debito pubblico e con il taglio di servizi essenziali che fino ad allora gli stati avevano garantito.

La moneta


Pochi lo fanno notare, ma quello che si verifica negli ultimi tempi, soprattutto negli Stati uniti, è la negazione di uno degli assunti in base al quale la politica neoliberista ha potuto dominare incontrastata, sostituendo quella keynesiana, che dal punto di vista del controllo dei prezzi si era dimostrata fallace: l'aumento della quantità di moneta nel sistema economico fa salire i prezzi, la moneta stessa vale di meno, quindi i tassi di interesse salgono (i tassi di interesse salgono perché, se presumo che con un euro domani potrò comprare meno di quanto compro oggi, per prestartelo ti chiedo un tasso di interesse più alto, che mi permetta di recuperare anche la perdita di valore).

E' per questo motivo che la Banca centrale europea, che ha come principale obiettivo quello del controllo dei prezzi, ha poco spazio di manovra nello stampare moneta, e nell'immettere liquidità nel sistema.

Eppure questo principio sembra essere saltato: gli Stati uniti hanno accumulato un debito pubblico notevole, immettono moneta nel sistema ormai da anni, ma i prezzi restano stabili e i tassi di interesse non salgono. Perché?

Da un lato gli Usa hanno fatto ricomprare grossa parte del loro debito da enti pubblici, riducendo così il rischio che i tassi salgano in base a ventate di sfiducia che possono circolare su i mercati internazionali, dall'altro sono sostenuti dalla Cina, che tende a tenere debole la propria moneta rispetto al dollaro per favorire le esportazioni, sostenendo di fatto il dollaro come moneta negli scambi internazionali.

Quella che si è venuta a creare è una situazione artificiosa, e gli Stati uniti sono un paese a rischio insolvenza, in cui le entrate fiscali sono molto basse e tutte le prestazioni sociali sono affidate ai mercati finanziari, a loro volta del tutto deregolamentati.

In altri termini hanno una situazione molto simile a quella della Grecia prima del default, su scala molto più vasta, ma potendo contare su di un apparato produttivo e su un mercato interno neanche paragonabili con quelli greci.

Per uscire da questa situazione, i suoi politici dovrebbero abbandonare le teorie neoliberiste, ma nel farlo incontrano parecchie resistenze, come quelle del Tea party, un movimento di estrema destra legato al partito conservatore, che ha fatto della lotta contro le tasse il suo cavallo di battaglia.

Vogliono distruggere il loro paese?

No, vogliono semplicemente impoverirlo e ridurre gli spazi di democrazia, perché dal loro punto di vista sono ben consapevoli che il neoliberismo ha fallito e che l'unica società razionalizzabile in base ai principi della massimizzazione dei profitti, cosa che gli consentirebbe di mantenere tutto il loro potere, è una società fascista su base nazionale.

Non è un caso se Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo, sperimentò le proprie teorie nel Cile di Pinochet.

L'Italia


L'Italia è uno dei paesi in cui le teorie neoliberiste hanno imperversato per oltre trent'anni.

Il risultato che hanno prodotto è sotto gli occhi di tutti: un interesse sui titoli di stato molto alto; una disoccupazione, soprattutto giovanile, diffusa; la desertificazione industriale; la riduzione di servizi, diritti e garanzie; tariffe elevatissime, frutto della privatizzazione di settori strategici che ha fatto lievitare i costi anche per l'industria stessa.

Anche in Italia si è finanziata, e si continua a finanziare, la riduzione delle tasse alla grande impresa con debito e tagli ai servizi, e anche qui movimenti reazionari hanno fatto della lotta alle tasse il loro cavallo di battaglia, arrivando a proporre l'uscita dall'euro (sarebbe interessante se qualcuno studiasse le affinità tra Tea party, Lega e Cinque stelle).

Non comprendendo, o non volendo comprendere, che all'origine della crisi non c'è l'euro ma le politiche neoliberiste, e che anzi l'euro ha contribuito a rendere meno disastrosi gli effetti della crisi.

Europa!

A livello internazionale i fattori di instabilità sono soprattutto di ordine monetario, e forse è anche per questo che la moneta assume grande importanza nelle teorie del complotto.

La realtà è che gli Stati uniti rischiano di perdere il ruolo in cui hanno giocato per tutto il dopoguerra, e la loro moneta rischia di non essere più alla base degli scambi internazionali. Un ruolo che gli viene conteso dall'euro.

Se la Cina decidesse di vendere in un giorno tutto il debito americano che possiede, e tutti i dollari che custodisce nelle proprie casse, gli effetti sarebbero disastrosi sull'economia americana e, molto probabilmente, anche per la pace a livello globale.

Una situazione di forte interdipendenza economica tra stati, oltre che tra privati, era stata prevista da Keynes, quando nell'immediato dopoguerra propose una moneta unica mondiale, proprio per impedire il verificarsi di una situazione come quella che va manifestandosi dinanzi a noi.

All'epoca fu inascoltato, eppure oggi appare abbastanza ovvio che solo una moneta globale, e una maggiore integrazione democratica internazionale, potrebbero eliminare i rischi di un conflitto che sarebbe disastroso, e mettere freno allo strapotere di imprese che operano sul piano globale, sfruttando la divisione in stati nazione, e l'adozione di sistemi normativi e fiscali differenti, per avviare una concorrenza al ribasso che limita non solo il benessere economico, ma le stesse libertà dei cittadini.

In un contesto del genere, la battaglia per un'Europa sociale è di fondamentale importanza.

L'Europa è il primo esempio al mondo di superamento dello stato nazione a favore di un'ordine transnazionale, e il primo esperimento di integrazione monetaria transnazionale.

Certo, fino a oggi sono stati i principi del neoliberismo a guidare questo processo, gli stessi che ora ne mettono in discussione la sopravvivenza. Ma questo è potuto avvenire anche perché un'idea di Europa non si è sviluppata a sinistra, si è sottovalutato il potenziale “rivoluzionario” che quel processo assumeva nel nuovo ordine internazionale che seguì alla caduta del muro di Berlino.

Mai come oggi i proletari di tutto il mondo dovrebbero essere uniti per ottenere garanzie e diritti uguali per tutti a livello internazionale. E mai come oggi l'Europa può essere l'avanguardia di questa lotta, anche grazie alla propria tradizione di libertà, diritti e democrazia che affonda le sue radici nell'illuminismo, nella rivoluzione francese, in quella russa e nella resistenza al nazifascismo.

L'unica alternativa a un ordine democratico transnazionale potrebbe essere costituita da innumerevoli “fascismi” nazionali, in un mondo dominato da imprese che agiscono a livello globale. Dovremmo tenerne conto quando parliamo di Europa.

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